Le operazioni colturali successive al impianto delle pante micorizzate
Le operazioni colturali successive al impianto delle pante micorizzate
Le operazioni colturali possono rendersi necessarie quando le piante sono giovani, una protezione contro gli animali ed i parassiti; per proteggerle dal morso dei roditori si usa circondarle di un manicotto di rete plastificata profondamente interrata nel terreno, mentre più difficile è proteggere le piante contro i cinghiali in grado di mettere a soqquadro intere tartufaie, specialmente nel momento in cui sono presenti i corpi fruttiferi; a ben poco servono l’interramento di spessi film di plastica neri o altri sistemi di protezione. Un certo numero di parassiti e di insetti defogliatori possono attaccare le piante simbionti sì da limitare o arrestare la crescita delle medesime, portando pregiudizio alla simbiosi micorrizica fino a bloccarla completamente; in questi casi possono rendersi indispensabili dei trattamenti localizzati all’apparato aereo della pianta con prodotti specifici. L’età di entrata in produzione della tartufaia dipende senz’altro dalla specie di tartufo, dalla pianta simbionte e da fattori climatici ed edafici; essa è legata anche alla corretta esecuzione delle varie operazioni colturali. I noccioli sono notoriamente considerati piante precocissime nel produrre tartufi, potendo iniziare dopo quattro anni a produrre Tuber melanosporum. Le roverelle solo in alcuni casi richiedono cinque anni e in genere sono ritenute piante molto più lente nell’entrare in produzione. Si badi bene però che si parla di inizio di produzione, mentre la piena produzione avverrà solo qualche anno più tardi. Dovrebbe essere anche chiaro che i tanti fattori biologici, ecologici, agronomici responsabili del completamento del ciclo biologico del tartufo devono essere concomitanti ed ottimali. Va tenuto presente che è impossibile indicare con precisione l’età dell’entrata in produzione di una certa pianta poi chè non tutte le annate sono idonee per la produzione spontanea dei tartufi e quindi non lo sono neppure per lo sviluppo del micelio delle piante micorrizate di una tartufaia coltivata, che così subirà un ritardo nell’entrata in produzione. La produzione della tartufaia all’inizio è minima, poi si mantiene presso chè costante per lungo tempo, infine decresce con l’invecchiamento della tartufaia stessa, salvo riprendere in seguito ad operazioni di rinnovamento.
Le singole piante possono arrivare a produrre 2 kg di tartufo pro capite per ogni stagione di raccolta, sarebbe tuttavia semplicistico prendere tale dato come valore medio e, moltiplicandolo per il numero di piante dell’intera tartufaia, definirne la potenziale produzione. Più che la produzione per pianta, cosa difficile da quantificare per la ritrosia con cui il dato viene rivelato dai vari tartufai, interessa infatti conoscere la produzione per ettaro. Questa è estremamente variabile in relazione alle condizioni dell’annata. Si può dire che in buone annate, in tartufaie di Tuber melanosporum, la produzione può arrivare anche a 50-60 Kg/Ha, con casi eccezionali di 80-100 Kg/Ha in tartufaie irrigate ed in ottime condizioni di suolo e microclima; spesso la stagione climatica sfavorevole riduce questa produzione a qualche decina di chili. La raccolta dei tartufi è l’ultima delle operazioni colturali da effettuare sulla tartufaia e va effettuata in maniera tale da non danneggiare il micelio fungino per non compromettere la futura produzione dello stesso anno e degli anni a venire; pertanto i tartufi vanno raccolti quando sono completamente maturi e profumati. La raccolta non dovrebbe aver luogo quando il terreno è troppo impregnato di acqua perché la struttura del suolo e quindi le tartufaie stesse rischiano di essere deteriorate. Per raccogliere i tartufi senza distruggere le radici micorrizate e per limitare al massimo la manomissione della struttura del profilo occorre individuare il punto preciso dove si trovano i corpi fruttiferi ed estrarli con molta accortezza.
Esiste infatti una stretta correlazione fra l’andamento stagionale delle precipitazioni e la produzione dei tartufi: un’estate senza pioggia porta un inverno senza tartufi. L’irrigazione nella tartuficoltura si è modificata da pratica di soccorso a pratica colturale volta ad aumentare la produzione dei corpi fruttiferi, grazie soprattutto alla grande sperimentazione effettuata in questo campo dai colleghi ricercatori francesi i quali, nelle tartufaie di Tuber melanosporum, sono arrivati a definire per tipo di suolo, le modalità, le quantità, le dosi e la frequenza della somministrazione. Il bisogno di acqua per il Tuber melanosporum inizia ad essere un fattore di rilievo dalla prima formazione dei corpi fruttiferi fino alle ultime fasi di maturazione, divenendo però esigenza più marcata nel periodo di ingrossamento dei carpofori.
Le modalità d’irrigazione dipendono dai tipi di terreno, dalle condizioni climatiche, dallo stato della vegetazione e dalle effettive disponibilità idriche; in caso di notevole disponibilità di acqua il metodo più razionale sembra essere quello a micro-aspersione che è il più simile alla pioggia; in caso contrario può essere utilizzato il metodo a goccia che consente sensibili risparmi idrici. In tartuficoltura la qualità delle acque utilizzate per l’irrigazione riveste molta importanza e la preferenza deve andare alle acque neutre od alcaline di pozzi e sorgenti piuttosto che a quelle di origine pluviale raccolte in appositi invasi. Attualmente in alcune situazioni le acque di pioggia, acide perchè cariche di SO2 e CO2 diventano aggressive nei confronti del calcare che dissolvono e dilavano. Una certa acidità dell’acqua può provocare, a più o meno breve scadenza, una decalcificazione del suolo molto pregiudizievole per il tartufo, per il quale il calcare è un elemento indispensabile. Inoltre queste acque possono, per dissoluzione di altri elementi creare degli squilibri fisiologici sulle piante simbionti che si ripercuotono sul fungo. Sembra che in Francia (sud-ovest, zona di Bordeaux) l’acidità delle piogge sia una delle cause che hanno abbassato il pH del suolo con una conseguente diminuzione della produzione dei tartufi (Poitou, 1989). Per questo è molto importante l’analisi e la sorveglianza della qualità delle acque usate per l’irrigazione della tartufaia. A proposito della quantità d’acqua da apportare va detto che dosi eccessive conducono ad un arresto definitivo della tartufaia dopo una produzione “miracolo” di un anno o due. Per il Tuber melanosporum, secondo il tipo di suolo, l’insieme pluviometria-irrigazione potrà variare da 30 a 60 mm al mese; gli apporti nel periodo secco possono essere frazionati in quantità di 10 mm per irrigazione, che va ripetuta ogni 10 giorni (Poitou, 1989). Perché gli interventi siano più efficaci sarebbe opportuno installare sulle tartufaie un pluviometro mobile la cui forma e dimensione consentano di spostarlo ed utilizzarlo non solo per registrare le precipitazioni naturali e decidere il momento dell’intervento sulla base dei giorni di siccità, ma anche per registrare la quantità d’acqua somministrata con l’irrigazione che deve risultare complementare alle precipitazioni quindi nè scarsa e perciò inutile nè eccessiva e quindi addirittura dannosa.
Nel caso del Tuber magnatum, pur comprendendo che l’irrigazione può risultare determinante per lo sviluppo dei corpi fruttiferi ma non avendo ancora sufficienti indicazioni, si interviene nei periodi di eccessiva aridità somministrando acqua anche fino a 150 mm complessivamente. Questa irrigazione di soccorso, che si rivela necessaria soprattutto in condizioni di siccità prolungata, potrebbe apportare 50-60 mm in luglio, in agosto ed eventualmente in settembre, lasciando tuttavia che si stabilisca fra un intervento e l’altro un periodo di 10-15 giorni di relativa siccità. Durante l’irrigazione è importante non affogare il suolo d’acqua ed evitare ristagni sotterranei che sono dannosi al micelio del tartufo perchè causano malattie al colletto delle piante simbionti (marciumi radicali). L’irrigazione va praticata la sera tardi, la notte o il mattino presto, oppure con il tempo nuvoloso, in maniera da evitare il raffreddamento del suolo provocato da una intensa evaporazione.
Queste consistono nel ricoprire il suolo, attorno alla pianta tartufigena (Tuber magnatum) o sul pianello (Tuber melanosporum), con materiali di origine diversa come paglia, film di plastica, rondelle di legno, etc.. Questa copertura va effettuata “a scacchiera” con zone coperte che trattengano una maggior umidità e con zone libere che permettano il riscaldamento del terreno. La pacciamatura crea un microclima particolare che si rivela favorevole per il tartufo, consentendo una sua maggiore attività miceliare, una evoluzione microbica particolare nonchè la risalita delle radichette secondarie. Non a caso i tartufi vanno a localizzarsi proprio sotto i materiali usati per la copertura. Le operazioni colturali nelle tartufaie non devono limitarsi al terreno bensì riguardare anche le piante simbionti.
Le potature effettuate in maniera discreta e graduale, tendono a conferire alla pianta, in un certo numero di anni, una forma particolare che permetta il passaggio dei raggi obliqui del sole, limitando quelli ortogonali, e che assicuri la penetrazione delle piogge, anche leggere, fino al suolo ove si sviluppano le micorrize. Le potature vanno eseguite fin dal primo anno dell’impianto. In alcuni casi, se le piantine sono stentate perché la ripresa vegetativa non è stata pronta dopo la messa a dimora, può essere necessario un taglio a fior di terra (riceppatura) in maniera che una gemma del colletto dia origine ad un nuovo fusto ad accrescimento normale. Il secondo o terzo anno dall’impianto occorre una potatura che permetta alle giovani piantine di accelerare lo sviluppo, perciò si lascia, a seconda della conformazione della pianta, il ramo di punta solo i due-tre rami migliori e si ripulisce il piccolo tronco dai rigetti basali.Dal terzo-quarto anno fino al momento della entrata in produzione la potatura è condotta in maniera tale da ottenere una chioma di forma regolare e non troppo densa . Pertanto verranno accorciati i rami troppo vigorosi, che hanno tendenza a svilupparsi verticalmente e verrà ridotto il numero delle branche laterali, liberando il tronco,fino ad una altezza da 50 a 100 cm., in funzione del vigore vegetativo dell’albero.
Con le potature la pianta prenderà l’andamento prima di un ovale, poi di un cono rovesciato. A tutti questi interventi sulla parte aerea della pianta corrisponderà l’accrescimento delle radici orizzontali con capillizio ricco di apici micorrizabili e la diminuizione di quelle lunghe e fittonanti che non contraggono micorrizia. Nel momento in cui inizierà la produzione dei tartufi si dovranno ridurre le potature fino a sospenderle completamente se la forma ottimale dell’albero si mantiene e se perdura la produzione. Se al contrario in una tartufaia costituita da piante adulte la produzione è cessata si dovranno sfrondare le piante, durante il periodo di riposo vegetativo, per ridare loro forma e densità della chioma ottimali. Nelle tartufaie a volte si rende indispensabile anche il diradamento delle piante per esempio quando la densità della copertura, nonostante le potature, fa sì che il suolo non riceva i raggi del sole in alcun momento della giornata o quando l’eccessivo sviluppo delle chiome provochi un accumulo di lettiera al suolo, sfavorevole alla produzione dei tartufi. Nelle tartufaie coltivate ad alta densità di impianto, il diradamento è una operazione problematica poiché non si riesce a sapere con precisione da quali piante provengano i tartufi raccolti; si rischia cioè di sopprimere piante che producono tartufi al posto di quelle che non li producono, pertanto bisogna fare molta attenzione all’ubicazione dei tartufi raccolti e alla forma dei pianelli. Il diradamento e la sfrondatura che sono praticati in genere una sola volta, al massimo due, durante la “vita” di una tartufaia, hanno permesso in moltissimi casi la ripresa della produzione in vecchie tartufaie.
E’ pertanto necessario un cane bene addestrato che col fiuto localizzi il punto esatto ove si trova il tartufo giunto a maturazione. Esistono anche altri metodi di raccolta dei tartufi; fra questi, se non il più noto, il più folcloristico è quello con il maiale o, per la precisione, con la scrofa. La scrofa è ancora più abile del cane nella ricerca dei tartufi, in quanto, come dimostrato da recenti studi, riconoscerebbe fra i componenti aromatici del tartufo una sostanza volatile, un ferormone sessuale, identica a quella emessa dal maiale maschio, il verro. E’ per questo che la scrofa andrebbe a cercare i tartufi. Attualmente l’impiego del maiale nella ricerca e nella raccolta dei tartufi è stato vietato dalle leggi vigenti per i danni che esso causava con l’eccessivo scavo.
In Francia invece la scrofa viene ancora utilizzata; dopo averla addestrata a camminare al guinzaglio, viene condotta legata sulla tartufaia e quando con il grugno disotterra il tartufo, il tartufaio prontamente, prima che essa lo mangi, le mette tra i denti un pungolo e offrendole una leccornia (mais, patate) prende il tartufo.Per un tartuficoltore che abbia esperienza esiste anche la possibilità di effettuare la raccolta dei tartufi alla “marca” cioè marcando il luogo ove compaiono le tipiche fessurazioni, dovute all’ingrossamento dei tartufi che si sono sviluppati ma non sono ancora giunti a completa maturazione, con un segno di riconoscimento facile da scoprire al momento della raccolta. Un altro sistema, che è applicato con discreto successo in Francia sulle tartufaie di Tuber melanosporum, è quello che utilizza per la raccolta dei tartufi la mosca. Esiste una mosca detta tartufigena (Helomiza tuberivora) che si posa in prossimità dei tartufi, di cui sente il profumo, per deporvi le uova. All’avvicinarsi del cercatore, che deve essere munito di una piccola bacchetta da roteare innanzi a sè, una o più mosche si involano dal luogo ove si nasconde il tartufo rivelando così il punto ove si cela il carpoforo. Questi metodi di raccolta, benché pittoreschi sono approssimativi ed incompatibili oltre che con la legge con una tartuficoltura razionale in cui occorre raccogliere rapidamente e selettivamente tutti i tartufi maturi in un dato momento. E’ probabile che in futuro verranno impiegate tecniche più moderne per la raccolta basate su apparecchi detector, ultrasensibili a certe sostanze esalate dal tartufo. Un modo di raccolta dei tartufi vietato ma purtroppo ancora praticato, perchè c’è chi acquista il prodotto anche se ancora acerbo, è la zappettatura delle tartufaie soprattutto quelle di T. melanosporum, T. aestivum e T. uncinatum, ove i pianelli sono più evidenti. Questi pianelli vengono zappati in maniera sistematica tirando fuori i tartufi come fossero patate; ciò provoca una grave lesione al sistema micorrizico che viene ripetutamente troncato ed un arresto della progressione del pianello poiché la zappettatura accumulando la terra ai margini della zona micorrizzata costituisce un ostacolo alla sua estensione. Inoltre, vista la scalarità con cui maturano i tartufi, si raccolgono con la zappettatura carpofori per lo più immaturi facendo sì che la tartufaia divenga sterile nel giro di qualche anno e che rimanga tale per lungo tempo.