In collina per tartufi – Racconto del 1971

In collina per tartufi – Racconto del 1971

In collina per tartufi – Alba, Settembre. Non mastica un avanzo di sigaro, non porta un vecchio cappello ormai inverderamato dal tempo, non indossa una “cacciatora” dalle saccocce oblique e misteriose. E neppure sfoggia quei due o tre cani famelici, perennemente occupati ad annusargli i calcagni e poi alzare umidi occhioni di pianto. E’ un tartufaro giovane, una figura nuova nel mondo langarolo e monferrino che vive, si dà un’anima e un eloquio durante la specialissima, stregata stagione che nasce sotto il segno del tartufo.

Incredibilmente, discute di soldi, pianificando fatiche e guadagni, tenendo un bilancio di spese e di ricavo, con aperture prive di pudicizia se non proprio di sospetti. L’anno scorso, infatti, ha guadagnato coi i suoi fratelli poco più di 4 milioni, quest’anno conta di arrivare almeno a 6, temperatura sole temporali aiutando.

Hanno affittato la vigna, mutato il volto alla loro giornata terrena. Da oggi fino a novembre, forse fino a Natale (niente come la neve per aiutare il cane: elimina tutti gli altri odori, tranne quello finissimo del tartufo), muoveranno di casa verso le dieci di sera per ritornare all’alba, il prezioso minuscolo raccolto in un sacchetto di cellophane. Batteranno boschi e costole di colline, vigne altri e declivi al lume di una lampada a petrolio, tenendo in vita un solo rituale: l’allontanamento dal paese, che bisogna compiere con passi da spia, facendo perdere le tracce, deviando lungo sentieri oziosi per scoraggiare i pettegoli, gli avidi, gli improvvisatori che sulle tracce altrui si illudono di poter mettere le mani su una zona privilegiata e che fu scoperta dal tartufaro dopo anni di ricerche pazienti.

Sembra un operaio, un artigiano di paese, di quelli che lavoravano solo quando comanda la voglia, l’ispirazione più che il bisogno. Sostiene che tutta la leggenda intorno alla figura del tartufaro la si è immaginata noialtri, bisognosi di minime incarnazioni d’uno o più Buffalo Bill locali. La nostra necessità favolistica ha caricato il tartufo di proprietà che vanno oltre il gusto, avendolo noi accettato come il frutto del fulmine, quindi opera diabolica, tanto più gustosa quanto più assoggettata da arti culinarie.

Discute con bella abilità dialettica sulle manovre mercantili, sul sottobosco commerciale ce fanno da logico basamento a ogni fiera del tartufo, con esemplari inodori arrivati da altre regioni e mischiati a quelli piemontesi, con prodotti mostruosi che alterano politicamente il prezzo e vengono spediti a Roma, in America, persino a Mosca con tanto di targa per omaggiare un governante, un parente di peso o semplicemente per ottenere una buona fotografia sui giornali.

Ride e ironizza, accoccolato dietro il suo segreto, che non è una miniera visibile ma un’infinità di piccoli sorgenti tartufesche sperse nel verde brullo, al piede di quel certo castagno, in quel tratto sabbioso e persino tra pietre. Sarebbe disposto a guidare una nuova sorta di safari, se la comitiva fosse educata, consapevole, in grado di camminare almeno 6 ore e dopo aver pagato un certo prezzo.

Sa di essere furbo e fortunato. I suoi due fratelli, più anziani, riconoscono le sue abilità, lo lasciano decidere e comandare. Lui solo si occupa di controllare il “tesoro”, lui solo decide se quel cane funziona oppure no. E sono cani bastardi ovviamente, ma sopportati con contadinesco affetto e non con quella leggendari bestialità che pareva indispensabile ai vecchi ricercatori e ai loro agiografi.

La gran forza discorsiva che gli vien fuori è dettata dalla convinzione di non esser più un contadino. O meglio: di essere maturato a contadino vincente, forma rarissima di creatura. Dopo tanto di assicurazione contro la grandine, malvagia sì ma meno pericolosa delle pratiche che la dovrebbero contrastare e medicare a furia di firme e carte bollate, dopo tante pene per un frutteto che nessuno apprezza ma che è doloroso dover abbandonare agli sterpi, dopo tanta angoscia per una vigna che spreme sudori e timori e poi non si sa mai come amministrare al meglio in cantina, fu, per lui e i suoi fratelli, il tartufo: cioè un gioco di ragazzi cresciuto a lavoro adulto, smania di stupire agli amici di paese e poi rifornirli e poi sedurli e infine ottenere il rispetto. Tanto che grazie al tartufo oggi gli si rivolgono con la deferenza che sempre e portata al più astuto, e cioè al potente.

Avendo vinto, essendo riuscito a domare persino la voglia di abbandonare la terra per trovasi un lavoro in città, parla facilmente, ridendo di tutto, con esplosioni verbali che zittiscono gli interlocutori di ogni razza. A dimostrazione che un uomo e un begnino segreto legato a lui solo costituiscono forza naturale per opporsi a ogni possibile calamità do questo mondo.

E’ ancora giovane, tirato nelle occhiaie per lo scarso sonno che gli concedono gli impegni della sua stagione. Non ha problemi di matrimonio: almeno 4 delle ragazze del paese se lo sposerebbero subito. Ma lui dà tempo, si è programmato, intende aspettare ancora un paio di anni, finché la casa sarà rimessa a nuovo, resa più comoda per se e per i fratelli.

Ora dal taschino della giaccia tira fuori un sacchetto piccolissimo. Il gesto è da venditore di gioielli più che da tartufaio. Ma il tartufo deposto sul tavolo è troppo molle, un grumo spugnoso quasi insipido.

Lui stesso lo guada e poi lo palpa con stupefazione mista a un’ironia rancorosa. Perché sa quello che vale, quel gnocco di schiuma, mentre altre fatiche, su e giù per le vigne, nessuno considera più. E quel coso, quel niente, costano oro, anche se la stagiono non gli si addice ancora, perché parlare di primizia nei regni del tartufo è bestemmia. Lo studia e considera, tuttavia, come il simbolo di un mondo indecifrabile, dove anche una fortunata sopravvivenza diventa simbolica, il regalo del destino.

Giovanni Arpino, 1971
dal quotidiano La Stampa