Lagotto Romagnolo, il recupero della razza

Lagotto Romagnolo, il recupero della razza

Lagotto Romagnolo, il recupero della razza – Verso la metà degli anni Settanta un gruppo di valenti cinofili romagnoli, guidati dal gentiluomo imolese Quintino Toschi, presidente del locale gruppo cinofilo, con la sovrintendenza del prof. Francesco Ballotta,grande allevatore e giudice E.N.C.l. (il quale ricordava perfettamente i Lagotti della sua lontana giovinezza) e il sostegno tecnico del dr.Antonio Morsiani, cinologo, giudice e allevatore di fama mondiale, decisero che era il momento di prendere in mano la razza per salvarla dalla pressoché totale degenerazione in cui era caduta causa l’incompetenza, l’ignoranza e l’incuria di chi la deteneva.

Essi, coadiuvati nella loro opera dal rag. Lodovico Babini, cinofilo romagnolo di antica esperienza e primo fra tutti ad occuparsi seriamente della razza, da Gilberto Grandi, allevatore e giudice E.N.C.I., dalla dr.ssa Dinora Venturi, biologa, della dr.ssa Nieves Lenzi , diedero inizio alla ricostruzione genetica e morfologia del lagotto, facendolo uscire in tempo dal tunnel senza ritorno dell’estinzione.

La riunificazione delle due storie parallele del lagotto (quella delle sue originarie paludi e quella delle colline appenniniche) cerano i presupposti per riportare in purezza la razza. In questo senso grande importanza ebbe la testimonianza storico-cinotecnica del prof. Francesco Ballotta, originario di Fusignano (RA), un paese non lontano dalle distese vallive della Bassa Romagna.

Egli ricordava con precisione storia e morfologia dei lagotti dei primissimi anni del novecento e ne aveva fatto oggetto di un suo articolo apparso su “rassegna cinofila” (una bella rivista ENCI oggi purtroppo scomparsa) del novembre del 1954. L’articolo in questione prendeva spunto da un precedente scritto pubblicato dalla stessa rivista e a forma del Dr. Nino Cantalamessa, noto esperto e scrittore di cose venatorie, sul “cane da anitre” delle paludi Pontine e di fine Ottocento.

Ballotta abitava in un paese della Bassa Romagna che era allora un vero paradiso per i cacciatori: appena fuori dall’abitato infatti vi erano dei vasti prati dove ci si poteva sbizzarrire a sparare alle quaglie e ad allodole, né mancavano macchie in cui spesso sostava la beccaccia e poi vi era la palude attraverso il quale, sempre cacciando, si poteva arrivare fino alle valli di Comacchio. Allora quelle valli erano anche assai più estese perché ancora non avevano avuto inizio le opere di bonifica che ormai le hanno già fatte scomparire.

E oltre alla selvaggina vi si trovavano pure molti tartufi, così che, per una ragione o per l’altra, i cani erano assai numerosi. Né è a credersi che tutti quei cani fossero dei volgari bastardi, tutt’altro: vi erano degli eccellenti bracchi, dei setter scozzesi e anche inglesi, né mancavano  Pointer provenienti per lo più dall’allevamento del cav. Sangiorgi di Cotignola, un appassionato di questa razza che aveva fato qualche buona importazione dall’Inghilterra. Ma bracchi, setter o pointer rappresentavano , diciamo così, la nobiltà; il popolo invece era costituito in gran parte da un cane di media taglia, dal pellame folto e ricciuto, il quale ricordava assai da vicino i barbet e il barbone in particolare. Lo chiamavano Lagotto.

Il prof. Ballotta non sapeva con precisione l’origine di tal nome, chi diceva che gli era derivato dal fatto che lo avevano portato i barcaioli che un tempo attraversavano i canali che da Pontelagoscuro su Po si addentravano coi loro bragozzi nella pianura romagnola, oppure quello strano nome lo si doveva al fatto che questi cani avevano una grande predilezione per l’acqua. I Lagotti seguivano a nuoto per ore e ore il padrone che intanto camminava sull’argine della valle o che sul barchino si era addentrato fra i canneti. Bisognava vedere come questo cane sapeva far frullare il selvatico eseguirlo se ferito anche nel più fitto intrico dei giunchi e delle canne palustri, sicuro che la preda non gli sarebbe sfuggita.

Alcuni erano addestrati alla ricerca dei tartufi riuscendo a trovare questo fungo prelibato anche quando giaceva assai profondamente o sotto intricatissimi cespugli. L’intelligenza, la versatilità, la grande resistenza e la sobrietà di questo animale lo avevano fatto adibire ai più svariati impieghi:dalla caccia in ogni ambiente alla guardia dei casolari, dalla cerca dei tartufi alla lotta contro gli animali nemici dei pollai; addirittura uno sapeva trovare gli oggetti smarriti: bastava fargli annusare un qualcosa che era stato a contatto con ciò che s’era perduto, e quasi sempre la ricerca era fruttuosa.

Secondo il prof.Ballotta la taglia del Lagotto si aggirava fra i quaranta e i cinquanta centimetri; il suo corpo era raccolto, ben fornito di muscoli, con arti anteriori diritti e posteriori giustamente flessi, da consentire una andatura assai leggera ed elastica; aveva piedi rotondi con dita arcuate (piedi di gatto). Il collo era asciutto,di media lunghezza, su cui poggiava una testa bene proporzionata, con muso diritto e fornito di folti mustacchi. Gli occhi, sempre di colorito scuro, erano nobilissimi con una espressione addirittura umana. Le orecchie, attaccate a livello della rima palpebrale, erano di media lunghezza e piuttosto piatte. La coda, piantata piuttosto alta,veniva per lo più amputata a circa quattro dita dalla sua radice. Tutto il corpo era ricoperto da un pelame folto e ricciuto, molto simile  al vello dell’agnellino persiano. I più erano uni colore: marrone più o meno carico, oppure bianco sporco, ma se ne vedevano anche di pezzati, però il bianco non eccedeva mai. Lo stesso Ballotta aggiungeva che fra il Lagotto e il cane da anatre vi fosse grande somiglianza, e inoltre entrambi non avevano saputo adattarsi alle mutate caratteristiche dei luoghi ove solo pochi lustri addietro erano pur tanto numerosi; o piuttosto la loro decadenza era da imputare a quel difettaccio di noi italiani di attribuire speciale valore a ciò che viene da lontano, che ha un nome difficile da pronunziarsi.

E’ necessario considerare,innanzitutto,l’ambiente nel quale opera il cacciatore d’anatre per incominciare a capire che genere d’animale debba essere quello di cui ha bisogno. Questo tipo di cacciatore non si sveglia che alla fine dell’autunno, col richiamo delle prime nebbie, delle prime raffiche di tramontana e da questo momento fino ai primi tepori  fra acquitrini e canali incurante del gelo, del vento e della pioggia.

È spesso il maltempo il miglior alleato del cacciatore di padule.

Che cos’è, in definitiva, che si richiede al cane da anatre? Molte,molte qualità si trovavano riunite nei cani d’allora: innanzitutto una veemente passione per l’acqua e,poi,un coraggio a tutta prova per vincere le rapide della corrente, per affrontare gli steli infranti delle cannucce  aguzzi come lance, per liberarsi dalle alghe e dalle erbe subacquee che avvinghiano le zampe come piovre; un istinto sicuro per quello che è possibile e perciò che non lo e; calcolo della resistenza del ghiaccio e delle sabbie mobili; calma dinnanzi al pericolo,forza fisica,intelligenza,memoria,orientamento per ritrovare gli animali feriti caduti allargo e nell’intrico del canneto, resistenza a tutta prova e pelame assai spesso. Non è la lunghezza del pelo che conta, ma la sua densità, quella che in certi cani, anche a pelo relativamente corto, non permette di vedere la pelle. Questo è, sommariamente, il cane da anatre. Ma,come i suoi compiti sono molteplici, così altre ancora sono le qualità che gli si richiedono e, tra queste, pazienza, sobrietà assolute. Per chi va tracciando con l’esile barchino stagni e paludi, un cane irrequieto,pronto a lanciarsi come un bolide sul selvatico abbattuto, costituirebbe un vero e proprio castigo di Dio perla costante minaccia dell’equilibrio dell’imbarcazione. Peraltro la caccia alle anatre, camminando attraverso la vegetazione palustre, esige anch’essa un ausiliare estremamente prudente e sottomesso.

Se al cane da ferma in pianura o in collina si domanda una cerca ampia e veloce, a quello da anatre si chiede invece un raggio d’azione che non oltrepassi il tiro del fucile per la semplice ragione che l’anatra non si lascia quasi mai fermare e decolla al minimo rumore. E’ chiaro che un cane focoso, abbandonato a se stesso, sordo ai richiami e insofferente di disciplina non consentirebbe di riporre un solo volatile nel carniere.