Cane da tartufi : Racconto

Cane da tartufi : Racconto

Cane da tartufi – M’è andata bene. Non capita mica a tutti. Ne ho visti di parenti vagabondi o, peggio, legati alla catena. Perché siamo strani, o così dicono di noi, talvolta. Ci tengono alla catena ad abbaiare alle macchine che sfrecciano sulla statale, forse gli strani sono loro. Oppure per cacciare. Io come si fa a cacciare, dico con i fucili e tutto, non so neppure da dove si cominci. Sì, correre dietro a conigli selvatici e scoiattoli certo, ma se incontri una volpe? Un cinghiale? Fagiani e pernici, poi, non hai neppure il tempo di sentire l’aria che sono già volati via. Avevo un cugino, grosso tre volte me, con macchie scure sul manto e un naso sempre gelato, che poteva stare delle ore immobile e fremente puntando verso il bosco. Loro dicevano che era un fenomeno, ma lui aveva un’aria abbastanza triste forse perché era stufo di stare lì duro e impalato per delle intere mattinate. Gli era venuta l’artrite a forza di uscire all’alba con la nebbia a stanare le pernici. 

Ce ne sono anche altri che vengono pagati a peso d’oro. Li si va a vedere negli allevamenti quando sono appena nati e anche prima. Donne con occhiali da sole e uomini di città vestiti da campagna (ma si vede che il fango gli fa senso) fanno dei gridolini guardando i cuccioli. Studiano nomi stranissimi (Windsor, Thelma, Scarlett) e li appioppano a ‘sti poveretti che poi crescono pieni di antibiotici e malanni. A proposito di nomi, quelli della cascina sotto la nostra – gente, diciamo, un po’ sempliciotta – hanno un bastardino col quale siamo cugini anche con lui. Una volta che gironzolavo da loro nell’aia c’era un tizio venuto a comprare del vino. Ad un certo punto chiese il nome di mio cugino. Il padrone guardò stupito l’uomo: “Come vuole che si chiami? E’ un can, si chiama can.” Per dire noi di campagna che non siamo granché istruiti e quelli di città ci guardano scrollando la testa e poi lo vanno a raccontare in giro.

Dunque fortunato perché me non m’hanno legato. Un altro mio cugino, in una cascina in paese, è diventato rauco a forza di abbaiare contro i gatti distesi al sole sul davanzale delle finestre. Non è mica vero che noi i gatti li vediamo come il fumo degli occhi, ma star lì alla catena mentre il gatto se ne sta a pancia all’aria – e carezze in quantità – fa già venire un bel nervoso. Invece noi andiamo d’accordo con gatti e galline, ma soprattutto fra di noi. Siamo persino capaci di scappare di casa per stare insieme, ci prendiamo delle gran cotte fra di noi, ci ficchiamo nei boschi, e la gioia suprema è farci una bella corsa nei campi finché sentiamo loro che ci gridano dietro di tornare, subito e muoviti!

Una cosa che mica tutti sanno è che abbiamo una gran memoria. Non dico solo per ritrovare la strada di casa, oppure nel riconoscere uno che ci ha dato una pedata (e secondo un’antica tradizione non possiamo soffrire preti, postini e carabinieri), ma proprio una memoria antica, genealogica. Ci ricordiamo che una volta, nemmeno troppe generazioni fa, prima di noi da queste parti c’erano i lupi, temuti antenati, che invece di cercarsi una casa e un padrone vagavano liberi e selvaggi per i boschi ad aggredire le pecore (ai pollai, da sempre, ci pensano le volpi). Quando sentiamo un ululato lontano, ma veri lupi non ce ne sono più, è come se quegli antichi padri che un tempo si nascondevano nel fitto degli alberi ci chiamassero. Come una volta quando la gente si serrava in casa a pregare. Poi è successo che di far la fame in giro da soli non ne potevamo più e loro, i padroni, si sono accorti che dandoci da mangiare e tenendoci lì con loro potevamo tornare utili. Per far la guardia, governare quelle stupide di mucche, trovare i tartufi. 

Ecco, tartufi. Io mi sono laureato in tartufi. Fin da piccolo la mia strada è stata quella, forse perché piccolo sono rimasto e posso intrufolarmi dappertutto. Poi perché sono robustetto e ho il pelo ruvido e compatto e basta una strigliata, a volte soltanto una brusca carezza del padrone, e sono di nuovo a posto.

Imparare ho imparato subito. Magari da piccolo tiravo un po’ a scansare gli studi, ma lui ha sempre saputo come prendermi, severo ma giusto. Prima mi ha insegnato intorno a casa a scavare in luoghi dove nascondeva cose che prima mi faceva annusare. Sembrava un gioco, magari un gioco un po’ scemo lì per lì, ma poi ha iniziato a piacermi. Soprattutto quando abbiamo cominciato a uscire noi due da soli di notte, in luoghi anche lontani da casa conosciuti a lui soltanto. Nella bisaccia c’è sempre qualcosa per me, bocconi di carne, biscotti, croccantini che lui compra alla cooperativa (mi porta con sé e dice a lei, che è sua moglie e mi accarezza anche meglio, che me li fa scegliere e che io alzando il muso sulle scansie li scelgo anche se i colori dei pacchetti mi sembrano tutti uguali, dice che sono intelligente).

In quelle notti, fa già freddo dopo l’estate, è come se sapessimo sempre dove andare. Camminiamo spediti sotto i castagni a volte lungo i sentieri a volte no, lui con la pila o la lampada a carburo che accende e spegne per non farci notare. Ma intorno non c’è nessuno, solo il vasto bisbiglio dei boschi. Poi sento qualcosa, come un odore diverso dagli altri che però conosco. E se lo sento più forte inizio a raspare nella terra. Mi piglia una strana eccitazione e capisco che sto lavorando bene e che lui è eccitato come me e mormora frasi di approvazione. Anche lui si mette a scavare nel buco che io ho iniziato, cercando, ma senza farmi male, anzi scherzando, di scansarmi se ficco il muso nella fossa. Mette la lampada vicino al pertugio e scava a mani nude, prima grossolanamente poi sempre più delicato, torno torno, mentre dalla terra nuda spunta come un bubbone chiaro, con un forte profumo mescolato a quello freddo del terriccio. Non so perché – a me quell’odore, e chissà che gusto ha quel bubbone biondo – non è che poi mi faccia diventare matto, ma mi basta guardare lui e vedergli gli occhi scintillare che sono contento.

Scritto da: GIANNI FARINETTI

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