Giacomo Castelvetro : mi verro a ragionare di tartufi…

Giacomo Castelvetro : mi verro a ragionare di tartufi

Giacomo Castelvetro ,”Breve racconto di tutte le radici,le erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano”

Per la qual cosa altro di questi non dirò, ma mi verrò a ragionare de’ tartufi come di frutto speziale di simile stagione e non d’altra, e particolare d’alcune contrade della nostra Italia. Dico pertanto che questo frutto è (secondo il parere de’ simplicista) un fongo che nasce sotterra, né mai a luce viene e ivi sicuro si sta, se i di lui golosi, od i cupidi del denaio che ne guadagnano, nol cavino, il che a due maniere si fa: l’uno è quando la terra si trova scoperta di neve, su la superficie della quale nasce una erba molto minuta e al color giallo tirante, molto bene da que’ contadini conosciuta; e quivi, cavando un palmo o poco più, si trova simil frutto. Perciò il nostro sovran poeta(*), paragonando la virtù de’ begl’occhi dell’amata sua donna a quella de’ raggi solari, disse(nel dicinovesimo sonetto, che comincia:

“Quando il pianeta che…”
E non pur quel che s’apre a noi di fore
le rive e i colli di fioretti adorna,
ma dentro, dove già mai non s’aggiorna,
gravido fa di sé il terrestre umore,
onde tal frutto e simile si colga ecc.

e dicendo “tal frutto”, s’intende ch’egli mandasse ad un amico suo un piatto di tartufi. L’altra maniera poi trovarlo è per mezzo del lordo porco, al quale fuor di modo piace, e col suo aguto odorato conosce ove nascosto si stia. S’accosta l’odor di questo frutto assai a quel del fongo, ma è di gran lunga più aguto; perciò da questo il predetto animale, ove ne sia, quantunque la terra sia tutta di grossa neve coperta, quivi si ferma e, la terra sotto la neve cavando, lo trova, e se quindi non vien tosto cacciato, subito sel divora; ma l’astuto villanello, che a cotal fine gli ha l’occhio addosso, incontanente d’ivi lo caccia e con la sua vanga egli nel trae; e ivi cavando, ne trova quando due o tre e quando più, e sono per lo più della grossezza d’un uovo. È il tartufo non tanto spongoso quanto il fongo, ma più sodo, e alcuni son di colore cenericcio e altri neri, e questi per migliori vengono stimati e perciò si vendono più cari, vendendosi più di mezzo scudo d’oro la libra di dodici oncie, e questi si trovano sul distretto di Roma; gli altri poi si vendono a miglior derata, e in Lombardia quantità assai grande se ne trova.

Volendone mangiare, si cuocono involti in carta bagnata sotto le cener calde, e quivi un mezzo quarto d’ora lasciati, son cotti; e, come alla pera, si leva la prima corteccia col coltello, poscia in minute particelle si tagliano e a finir di cuocersi entro un pentolino con ottimo olio, sale e pepe si mettono, e caldi che sieno, son cotti, né altro accade aggiugnervi se non il sugo d’uno o di due limoni o d’aranzi bruschi od agri, e così acconci si mangiano. Si possono ancora per tutto l’anno conservare e alla seguente maniera: arrostiti sotto le ceneri che sieno e della corteccia loro mondi e in pezzetti tagliati, in uno alberello pieno d’olio si ripongono e, ben turato il predetto vaso, lungo tempo si conservano; e quando altri ne voglia mangiare, di quel vaso se ne cava quanti l’uom vuole, e in un altro messi con nuovo olio, con sale e con pepe [si faranno scaldare], né mai si lascierà di mettervi il succo di limone; né altro per trovarli buoni si fa loro. Che è quanto di questo e d’ogni altro frutto od erba che noi di mangiare usiamo mi sappia dire, e perciò intendo di por fine a questo mio ragionamento con una graziosa beffa, avenuta colà dove io già mi dimorava, in venendo a ragionare di questi tartufi.

* Riferendosi a  Francesco Petrarca

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