La produzione vivaistica delle piante micorizzate

La produzione vivaistica delle piante micorizzate

La coltivazione dei tartufi vivaistica vera e propria non è possibile se non attraverso la messa a dimora di piantine particolari: le piantine tartufigene. Si tratta di piante le cui radici, mediante apposite operazioni vivaistiche, vengono fatte associare con il tartufo con il quale vivranno poi in simbiosi. Una volta trapiantate in terreni idonei ed accudite secondo determinati criteri permetteranno al tartufo di completare il suo ciclo biologico fino a fruttificare.

Per la produzione di piantine tartufigene oggi esistono metodi di laboratorio sicuri e relativamente poco costosi, che permettono produzioni vivaistiche su vasta scala tenendo conto dei progressi effettuati nel campo della biologia dei tartufi (germinabilità delle spore, aspetti trofico-funzionali della simbiosi micorrizica, etc.), della biologia vegetale (coltivazione in vitro, ritmi di rizogenesi, etc.) e della tecnologia (serre polifunzionali, contenitori particolari, etc.).

Volendo illustrare le metodologie correntemente in uso al Centro di Ricerca sul Tartufo di Sant’Angelo in Vado (PS), pur senza addentrarsi in disquisizioni troppo tecniche, si dovrà fare riferimento ai caratteri delle piante simbionti, alla preparazione del substrato di coltura nell’appropriato contenitore, alla somministrazione dell’inoculo ed infine all’allevamento in serra in condizioni controllate. La scelta della pianta simbionte da micorrizare deve essere fatta fra le diverse piante forestali che producono spontaneamente tartufi. Esistono per ogni tipo di tartufo diverse specie di piante forestali nell’ambito delle quali poter effettuare la scelta in considerazione delle caratteristiche geopedologiche della futura zona di impianto ed in base alla adattabilità della pianta a quel dato clima.

Qualunque sia la specie scelta, i semi di partenza devono essere selezionati rigorosamente e disinfettati. In genere le ghiande e le nocciole vengono disinfettate con ipoclorito di calcio al 6% prima di seminarle in sabbia asciutta e sterile, o in vermiculite, per essere conservate fino a gennaio. In questo mese le cassette contenenti i semi vengono inumidite e poste in serre riscaldate (20-25°) per la germinazione. Dopo circa 60 giorni le plantule hanno un sistema radicale abbastanza sviluppato per essere inoculate. Per quelle specie vegetali i cui semi sono piccoli e di difficile manipolazione nella sterilizzazione (salici, pioppi, carpini etc.) oppure che germinano in tempi molto lunghi (tigli), si ricorre alle talee autoradicate.

Le talee devono essere prelevate secondo i ritmi di rizogenesi propri della specie e trattate con soluzioni di ormoni, tipo l’Acido Indol Butirrico, l’Acido Indol Acetico o altri, ad appropriate concentrazioni (da 2500 ppm a 7500 ppm). In caso di rizogenesi estiva, come nel tiglio, le talee vanno mantenute in serra di radicazione fino alla primavera successiva (cioè al momento dell’inoculo) e questo può creare problemi per l’insorgenza di marciumi radicali.

Mettendo a confronto i risultati ottenuti in diverse prove effettuate (Gregori e Ciappelloni, 1988), si evidenzia che il materiale inoculato a livello di semenzale presenta, nei confronti del seme e della talea, un indice di micorrizazione più elevato, dovuto ad un apparato radicale meno fittonante e più ricco di radichette secondarie e terziarie.

L’importanza dello sviluppo delle radichette secondarie e terziarie ai fini della micorrizazione è tale che le piantine, al momento dell’inoculo, vengono sottoposte al taglio del fittone o delle radici principali per avere una proliferazione di quelle laterali secondarie che sono molto più ricche di apici radicali. Anche se per il momento mancano conferme sperimentali di una loro maggiore predisposizione alla micorrizazione, tuttavia, a parità di costo, si preferisce prelevare i semi o le talee da piante sotto le quali si raccolgono tartufi.

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