Di chi sono i tartufi?

I tartufi sono di chi li trova o dei proprietari dei terreni dove nascono?

Altro che diavolo. I tartufi anche nell’Età di Mezzo erano il “cibo degli dei” di cui già parlava Nerone. Anche se all’epoca lo apprezzavano soprattutto le classi popolari. Allora a tavola e nella società, era comunque importante che ciascuno rimanesse al suo posto. Le gerarchie sociali corrispondevano a quelle naturali. 

Gli alimenti più nobili e quindi adatti alle tavole dei gentiluomini, erano quelli che si potevano trovare in alto, come gli uccelli o i frutti degli alberi.

Le risorse del sottosuolo erano giudicate più vili e quindi destinate alla povera gente. Ma le abitudini cambiarono in fretta, come ricorda Francesco Francolini, eminente studioso di agraria, che agli inizi del Novecento fece nascere la prima cattedra di Agricoltura a Spoleto. Scrisse con un certo orgoglio:

“Antichissima fama godono i nostri tartufi. Già fin dagli ultimi anni del Quattrocento”.

Forse per questo, già allora il loro valore cominciò ad aumentare. Una ricchezza della natura, a portata di mano, che in Umbria è stata sempre ben chiara a tutte le classi sociali. Tanto da alimentare polemiche continue e regolamenti stringenti sulle regole della raccolta. Un quesito fondamentale ha diviso da sempre le assemblee comunali, i cittadini e i tanti “cacciatori”: i tartufi sono di chi li trova o dei proprietari dei terreni dove nascono?

Dipende. Il tartufo bianco pregiato, in Umbria come altrove, storicamente è di chi lo scova per primo. Forse perché le tartufaie sono invisibili e spesso sconosciute anche ai proprietari.

Per il tartufo nero il diritto di cava, per secoli, è stato invece delle comunità che abitano il territorio. Con mille distinzioni. Al tempo del ducato longobardo di Spoleto, ad esempio, le terre private non esistevano e la raccolta era libera. Poi le cose cambiarono. La professione del “tratufano”, il cercatore dell’oro dell’Umbria, nacque qualche secolo dopo. La prima traccia è in un documento contabile dell’ordinamento finanziario di Spoleto, la Tabula exitus, expanse et introitus del 22 agosto del 1400, nel quale venivano annotate le merci che entravano ed uscivano dalla città. Già allora i tartufi erano preziosi: per smerciarli fuori dal territorio bisognava pagare dazio:”un denaro per libra”.

Gli abitanti dei paesi di montagna cominciarono a proteggere in vari modi il prezioso prodotto della loro terra. Innanzitutto vietandone la raccolta a chi veniva da fuori. Il paese di Orsano, per esempio, proibiva severamente la cava dei tartufi a chi non era del posto

“sotto pena de bolognini a qualunque contraffarà et della perdita de quanti tartufani li saranno trovati”.

Lo Statuto di Cerreto di Spoleto non solo vietava agli “stranieri” la raccolta dei tartufi ma anche la caccia e la pesca. Così come quello di Vallo di Nera. A Scheggino i tartufi appartenevano per legge ai proprietari dei terreni dove crescevano. Ma i fortunati abitanti del paese, che avevano il senso degli affari, cominciarono presto ad affittare le tartufaie con innegabili benefici. La raccolta era vietata “ai forensis” anche a Ponte, piccola frazione di Cerreto, come attesta lo Statuto del 1572.