Risotto al Tartufo – Racconto

Risotto al Tartufo – Racconto

Risotto al Tartufo – Racconto – A detta di tutti Chiara era la miglior cuoca del circondario.
Per gustarne i prelibati piatti molti dei suoi clienti erano disposti a farsi svariate decine di chilometri sfidando le strade strette e impervie, le afose calure estive, le nebbie autunnali e la mancanza di un’adeguata, ma quanto mai necessaria, segnaletica; quest’ultima sempre più triste particolarità delle strade pavesi.
La trattoria si chiamava Alla Chiara dell’Uovo e chi vi giungeva, per caso o più semplicemente per un passaparola tra amici, finiva immancabilmente per ritornarci almeno in un’altra occasione anche solo per aver la certezza di non aver sognato e per rassicurarsi che la specialità della casa, il risotto al tartufo, era reale e non un ectoplasma fumante arrivato dai confini della realtà. Come solitamente accade quando si enfatizzano le aspettative la seconda volta perdeva qualcosa in magia, ma il risotto era lì da gustare, concreto, così com’era gente concreta lo zoccolo duro dei clienti della locanda.

Per la maggior parte si trattava di camionisti che si fermavano attratti dalla comodità del grande parcheggio a spina di pesce.

Poi venivano i piazzisti, individui vagamente inquietanti che vestivano dei completi blu abbinati a scarpe marroni. Chiara li riconosceva a colpo d’occhio in quanto, come gli ospiti dei talk show televisivi che sorridono solo quando vengono inquadrati, questi sorridevano solo quando si accorgevano di essere osservati. 

Infine c’erano i cani sciolti, gente di passaggio che decideva di fermarsi lì per necessità o magari solo per sentito dire. In questo secondo caso, e la donna ormai lo sapeva, prima o poi il cliente le avrebbe detto: “Sa che sono venuto qui apposta da Milano?”. Era un classico. Forse lo dicevano per avere uno sconto? Ma no, era solo un complimento, un modo per manifestare la loro determinazione a voler, per quel giorno, gustare uno di quei famosi risotti di Chiara. 

Chiara era sposata con Renato, un uomo tutto sommato insignificante che se ne stava ininterrottamente seduto accanto al bancone del bar, a fumare puzzolenti sigarette senza filtro. Era di corporatura molto esile, magro, quasi scheletrico. Quando accavallava le gambe riusciva ad incastrare il piede dietro la caviglia opposta, come sanno fare solo i personaggi dei cartoni animati, le ragazze magre e quelle troppo pudiche o vergognose di sé. Aveva i capelli nerissimi nonostante avesse oramai passato i cinquanta e una barba altrettanto nera lunga tre dita che gli contornava il volto come un frate. Portava un paio d’occhiali dalla montatura enorme e nera, tipici degli anni settanta, e indossava jeans della giusta taglia ma che addosso al suo striminzito culo gli facevano il cavallo troppo ampio. Vestiva un vecchio giubbotto di renna beige dai gomiti lisi e con le frange da trapper, il solo indumento che un uomo del genere potesse indossare senza sembrare anoressico. Insomma, a vederlo pareva uno di quei terroristi delle brigate rosse come comparivano raffigurati in quelle vecchie foto in bianco e nero col pugno chiuso e il braccio alzato appena dopo la lettura della loro condanna all’ergastolo. O della loro assoluzione. Effettivamente Renato era stato un delinquente ma la sua ridicola attività criminale si era limitata a una testa rotta e al furto notturno in qualche distributore di benzina, poche lattine d’olio per freni e qualcuna d’acqua distillata. L’indole del fancazzista però non lo aveva mai abbandonato e quelle poche volte che apriva bocca era solo per vantarsi di non aver mai lavorato in vita sua. A dire il vero non è che vivesse alle spalle della moglie: l’edificio della locanda era di sua proprietà, l’aveva avuto in eredità da una zia ostessa. Renato era stato il solo ragazzo che aveva accettato di sposare Chiara e, come accordo prematrimoniale lui era stato chiaro:
“Io ti sposo ma tu non mi devi rompere il cazzo”.
La ragazza aveva acconsentito con entusiasmo, soprattutto allettata dall’attrattiva del locale che il futuro marito avrebbe portato in dote così che il matrimonio fu celebrato con gran soddisfazione di tutti.
Renato sapeva del difetto di Chiara; in paese le voci, pur non correndo, camminavano comunque, ma a lui non fregava assolutamente nulla. Era omosessuale e gli unici incontri di sesso li aveva due o tre volte al mese, di notte, al cimitero, sulla tomba del ragionier Augusto Brambilla, la sola ad avere una lapide ampia come un letto matrimoniale. Su questo fatto però le voci camminavano un poco più veloci.

Quel giorno il locale era pieno di clienti. Gli altri ristoranti della zona erano già chiusi per ferie e la clientela, di conseguenza, si era riversata tutta in quello di Chiara. Era l’ultima fatica anche per loro, l’indomani infatti avrebbero abbassato la serranda per un paio di settimane. In cucina era un borbottio di pentole che bollivano e padelle che friggevano. Marika correva come un’indemoniata tra i tavoli e Chiara aveva il suo bel daffare a preparare per tempo i piatti prima che cominciassero a volare le bestemmie. Nei giorni particolarmente caotici era aiutata dalla sorella e dalla nipote: la prima dava una mano a lei in cucina, allestendo le portate e svolgendo mansioni da sguattera, la seconda aiutava Marika ai tavoli e nell’accoglimento dei clienti con raddoppio di tette che ballavano.
Anche quel giorno il risotto al tartufo la faceva da padrone. Tutti i clienti lo ordinavano. L’alternativa, rappresentata da promettenti ravioli di cinghiale in brodo di verdure, non veniva neppure presa in considerazione, del resto erano o no alla Chiara dell’Uovo? Che senso avrebbe avuto recarsi all’Oktoberfest e bere una gazzosa? O fare una vacanza a Cuba accompagnato dalla propria fidanzata?
I tavoli erano quasi tutti occupati e, forse per la prima volta, questo preoccupava Chiara. Qualche minuto prima aveva aperto la dispensa e aveva visto il barattolo quasi vuoto. Quel barattolo conteneva il segreto dei suoi risotti. Non era certa di averne ancora per molto, se fossero arrivati altri cinque o sei clienti avrebbe dovuto per forza di cose dare loro i ravioli, e quest’imposizione non rientrava nell’etica della casa. Prese il barattolo e, facendolo dondolare, attirò l’attenzione di Renato. Questi si destò dal torpore e si scosse come risvegliandosi da un sogno catatonico.
“Ti aspetto di sopra”, disse Chiara al marito, “e ricordati il coltello”.
Renato aprì un cassetto del bancone e ne trasse un coltellino da cucina con la lama lunga e sottile. Salirono di sopra in camera da letto e, mentre si levava il maglione dal collo alto Chiara disse:
“Quelle nuove medicine saranno la nostra rovina. Saranno la rovina del locale”.
Renato non rispose subito.
“Puoi anche non prenderle”, disse infine mentre apriva il barattolo
Poi si limitò impugnare il coltello e una piccola paletta come quelle per raccogliere le briciole. Quando risollevò lo sguardo, Chiara era nuda davanti lui. Erano molti anni che faceva quel prelievo dal corpo di sua moglie eppure, anche quella volta, ebbe un lieve moto di repulsione. L’intero corpo di Chiara era coperto di scaglie di pelle morta, disgustose squame bianchicce dalla vaga parvenza di forfora grassa. Partivano appena sopra i polsi e finivano appena prima delle caviglie. Renato appoggiò il coltello sul corpo della moglie cominciò a grattare via qualche strato di quella secca materia, lasciandola cadere nella paletta. Quando ne ebbe raccolta la quantità massima senza far sgorgare il sangue, prese il barattolo e ve la versò dentro, facendo attenzione a non rovesciarne a terra neppure una scaglia.
“Con quella cura stai davvero guarendo”, disse Renato osservando la schiena della moglie.
Chiara sospirò.
“A che mi serve guarire proprio ora?”.
Ridiscesero in cucina. Lui tornò a sedersi accanto al bancone, lieto di aver felicemente assolto il solo dovere coniugale al quale era stato chiamato in tutti quegli anni di matrimonio; lei invece prese una mezzaluna e, dopo aver rovesciato le scaglie di pelle morta su un foglio di carta velina, le sminuzzò fino a ottenerne una polverina sabbiosa dal vago odore di cane bagnato. Infine rimise il tutto dentro il barattolo.
“Per oggi dovrebbe bastare…”.
Ma i problemi sarebbero sorti nelle settimane seguenti. La sua malattia, con le nuove pastiglie datele da un dermatologo di Voghera, stava regredendo. Per la prima volta in vent’anni.
Renato lesse nei suoi pensieri.
“Faremo altre pietanze. Oppure chiuderemo. E vaffanculo anche al risotto al tartufo”, disse.
Non ne avevano mai parlato seriamente, forse era arrivata l’occasione per farlo. Erano stanchi tutti e due di quella faccenda. Ma una decisione andava presa.
Proprio in quel momento Marika entrò in cucina, mezza stravolta dalle continue piroette fatte con i piatti in mano.
“Chiara, ne sono arrivati altri dieci. Dieci risotti al tartufo, ovviamente”.
Renato sollevò lo sguardo verso la moglie.
“Non basterà”, sentenziò laconico.
Altri dieci. No, non sarebbe bastato.
“Prendi un catino e mettici un po’ d’acqua tiepida”, ordinò al marito.
Andò in bagno, prese una borsetta e ne trasse un piccolo sasso nero, una specie di spugnetta dura e puzzolente come un cadavere lasciato a marcire al sole. Ritornò in cucina: il catino che Renato le aveva preparato era pronto sul pavimento. Mise a bagno i piedi e li lasciò a mollo cinque minuti. Chiuse gli occhi un istante, godendosi quel piccolo e breve attimo di sollievo.
Dal salone provenivano rumori di bicchieri contro i denti, di posate contro i piatti, di risate mischiate a un insieme di discorsi babelici. Qualcuno, con la voce un poco più alta degli altri stava prodigandosi in elogi per il suo meraviglioso risotto ai tartufi.
Quando Chiara cominciò a grattarsi i calcagni con la pietra pomice, Marika stava raccogliendo le nuove ordinazioni.

Scritto da Kadnas Rusan

Il racconto in versione integrale potete leggerlo su alidicarta.it