La libera cerca verso il FUTURO, forse

La libera cerca verso il FUTURO, forse

La libera cerca verso il FUTURO – Riportiamo integralmente la lettera pubblicata sul sito Tartufomania scritta dal socio  Geom. Gentilini Gianluca in cui affronta il delicato tema del futuro della libera cerca senza però tralasciare la pesante eredità del passato e criticando, a ragion veduta, il presente.

La fine della stagione del Tartufo Bianco Pregiato, come ogni anno, porta con se bilanci e commenti, critiche e auspici, pensieri e parole, in merito a tanti e importanti argomenti: dalla quantità alla qualità del prodotto trovato, ai cani, alle “bollate”, alle sagre ed ai prezzi….il magico e inimitabile prodotto della natura per eccellenza, non smette mai di fare parlare di se. Tra tanti spunti di discussione uno, indiscutibilmente, è la base di tutti gli altri, che ne sono obbligatoriamente conseguenti, si tratta del tema della “gestione e salvaguardia di territorio e della libera ricerca”; quest’anno, più degli altri anni, proprio questa tematica merita una segnalazione di rilievo.

Da molto tempo, la “gestione e salvaguardia di territorio e della libera ricerca”, si parla di territori naturalmente vocati e produttivi da secoli, le cosiddette “bollate naturali e storiche”, è il problema maggiore e più grave, nel panorama che interessa il Tartufo Bianco Pregiato per la Regione Emilia Romagna. La proliferazione di “tartufaie controllate”; autorizzazioni provinciali che consentono la chiusura di questi boschi storici, con riserva di raccolta esclusiva solo per i proprietari, trasformando, impropriamente, un prodotto naturale, spontaneo e non coltivabile, in un normale prodotto privato; ha fatto si che il territorio naturalmente e storicamente produttivo, nel tempo, sia stato, sempre più incessantemente, limitato e degradato. Per vent’anni questo è stato il risultato della discutibile applicazione della Legge Regionale in materia di “tartufaie controllate”, da parte della Provincia di Bologna, attraverso una politica restrittiva e volta ad una “privatizzazione” del bosco, applicata su un intera regione ed in particolare sulla Provincia di Bologna. Vale la pena ricordare che da una ricerca fatta su dati reali, cioè contattando direttamente i competenti settori delle varie Provincie, risulta che l’87% (dicesi ottantasettepercento!!!!) di tartufaie controllate sia in Provincia di Bologna. Un vera vergogna!!!

Aggiungendo che ad essere privatizzate sono state le zone migliori, quelle più produttive, spesso ampie e anche potenziali riserve naturali per la continuazione della specie, si capisce bene come per anni, l’impegno delle associazioni di tartufai sia stato il cercare un metodo per invertire e contrastare questa pericolosa tendenza.

Condizionate dalla mancanza di una massa minima per essere ascoltata dal mondo politico amministrativo, spesso lacerate dalla perenne incapacità di essere univocamente d’accordo su temi importanti, le associazioni bolognesi di tartufai hanno percorso, inizialmente, ed invano, la strada del dialogo con le istituzioni. Molte proposte progettuali concrete, avanzate per giungere ad una collaborazione tra grandi enti amministrativi, proprietari dei terreni, agricoltori e tartufai sono passate inascoltate e inutili; anche quando portavano proposte innovative ed importanti, sotto il profilo ambientale, sociale, economico e turistico. E’ naufragato, pertanto, il primo sogno, forse utopistico, di poter annullare il processo di chiusura del territorio, quello della “grande collaborazione istituzionale”, per fare si che tutte le parti interessate avessero un vantaggio e che non venissero più autorizzate “tartufaie controllate”.

Dal bisogno di fare fronte a questa emergenza e nell’assenza di un concreto piano per salvaguardare la libera ricerca, che non va dimenticato, è parte integrante, vitale, basilare della filiera del tartufo, si è andata consolidando una proposta di metodo che ha richiesto molto tempo prima di essere affinata e capita, ma che ora, e si torna al discorso dell’importante commento all’annata appena trascorsa, comincia a portare i propri frutti importanti.

Inizialmente il mondo associativo ha iniziato a “prendere direttamente ed in proprio i terreni”, con contratti d’affitto specifici, peculiari per la durata, dettagliati per la conduzione in termini di giornate, utilizzo ed operazioni colturali. Ampie zone di territorio vocato e produttivo sono state, non solo “salvate” dalla chiusura e lasciate aperte alla libera ricerca, ma anche difese da incuria e degrado, curate e riportate in produzione con operazioni di taglio pulizia e impianto, ripristino di corrette reti sentieristiche e delle necessarie opere di difesa dalle calamità naturali quali frane o inondazioni. Ma ogni metodo per essere vincente nel tempo, ha bisogno di sostenibilità, quella capacità, cioè, di sapere garantire una “continuità temporale” del proprio operato, in termini di forza e qualità del lavoro, solidità economica e coesione fra i vari interpreti. E la gestione di un territorio per un associazione dove pochi lavorano e pochi di più contribuiscono in termini economici, seppur con una quota societaria non elevata, quanta sostenibilità può avere? Pochissima.

Questa è stata la seconda proposta utopistica naufragata, poiché, nonostante fosse chiaro il beneficio di avere tartufaie aperte e libere, la stragrande maggioranza dei tartufai non ha aderito a tale proposta, continuando a frequentare le tartufaie, che erano lasciate alla libera ricerca, ma non partecipando ne alle lavorazioni ne con una quota associativa, in altri termini non garantendo quella sostenibilità che rappresenta la linfa vitale di questo metodo.

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